Racconti – Storia del Consumismo in una Pinta di Birra

Avevo aperto un piccolo pub in periferia. Un’impresa ardita, visto che la città vantava già ottimi ristoranti, locali e bar.
Infatti, nessun cliente varcò mai la porta d’ingresso. Ma io avevo studiato a fondo le regole dell’economia e ne avevo capito l’essenza. L’importante era produrre, e poi consumare, a prescindere dai bisogni reali della società. Avevo trovato i fornitori, mi facevo consegnare i fusti di birra, e mi sedevo al bancone a bere, da solo. In piedi dal lato interno del bancone spillavo la birra e mi auto-emettevo gli scontrini, dall’altro lato del bancone bevevo e mi auto-pagavo. A ogni pinta spostavo i soldi dal portafoglio alla cassa, che a fine serata risultava sempre bella carica di banconote e monete. Svuotavo la cassa nel portafoglio e il giorno dopo ripartiva tutto da capo.
Una volta all’anno mi presentavo dal commercialista che sprizzava entusiasmo stendendo il bilancio, conseguenza del quale la banca non esitava a elargirmi i prestiti necessari per sostenere le spese del locale. Quello che avanzava erano molto più che briciole.
Feci crescere ulteriormente il tutto, per potere chiedere ancora più finanziamenti e presentare al commercialista numeri sempre in aumento.
A dire il vero la birra era anche troppa, così a volte la versavo direttamente nel lavandino.
Nel giro di un paio d’anni il volume d’affari del pub era quadruplicato. Il pub era diventato un esempio perfetto di economia locale di successo.
Non potevo certo fermarmi. Raddoppiai il numero di vetrine sulla strada e la produzione. Smisi quasi di bere. Versavo direttamente la birra in una grande vasca sul retro del pub. Più birra buttavo, più finanziamenti ricevevo. Anche i debiti e i mutui con le banche aumentavano di conseguenza, ma nessuno lo vedeva come un problema. Anzi, sarebbero stati tutti d’accordo nell’investire ancora di più nella mia fiorente attività.
Poi scoppiò la bolla del luppolo. Avevo mascherato tutto alla perfezione, ma avevo dovuto corrompere qualche perito della banca e un broker finanziario con fusti da 100 galloni di rossa doppio malto. Questi ultimi, colti da improvvisa cirrosi epatica, fecero scoppiare il loro fegato prima, e la bolla birraiola dopo.
Dichiarai il fallimento, e il comune mise direttamente le mani in pasta. L’indotto ormai era troppo grande, dai fornitori di birra, ai trasportatori, agli sponsor, e la chiusura del pub avrebbe generato una crisi generale. Serviva un piano per recuperare. Pubblicità, volantini, programmi radiofonici locali, la birra doveva diventare un bisogno primario per i cittadini. Vennero istituiti degli incentivi per andare al pub, con sconti particolari sia per gli astemi che per gli alcolizzati. Io, testa pensate e leader della nuova economia, restai al mio posto, cavandomela con una grande multa, comunque irrisoria rispetto al mio fatturato.
Il pub conobbe il suo periodo migliore. Frotte di avventori si presentavano già al calare del sole, e gremivano il locale fino alla chiusura a notte fonda. Arruolai un esercito di camerieri, stipulai contratti per le pulizie e la manutenzione del pub, per la pubblicità e per organizzare eventi di paese.
Finché la gente beveva tutto funzionava.
Poi arrivarono altre cirrosi epatiche. Il comune finanziava il mio pub, ma anche altri che avevano seguito il mio esempio. Non c’erano più soldi per gli ospedali. In più, la gente che aveva iniziato a spendere lo stipendio in birra aveva ridotto drasticamente tutti gli altri beni, e così erano falliti i panettieri, piccoli alimentari, e i piccoli negozi storici del comune. Molti si erano convertiti al nuovo business della birra, ed erano diventati fornitori di boccali, spillatrici, birre artigianali.
Ora che la birra andava in crisi tutto ciò non serviva più a nulla. Servivano medicine per chi aveva bevuto troppo, e altre infrastrutture lasciate all’abbandono dalla foga della birra.
Bisognava tornare indietro, ripristinare la situazione originale con tutti i negozi e i servizi variegati, e con un piccolo pub in periferia in crisi. Ma era troppo tardi, e ci sarebbe voluto troppo coraggio, così il sindaco, convinto anche dal mio “dono” di 40 fusti di birra scura artigianale, ideò un’altra soluzione: aumentare ancora gli incentivi, e rimaneggiare un po’ le statistiche di casi di cirrosi epatica.
Io, seppur guardandomi intorno con circospezione, continuavo a emettere scontrini su scontrini fino ad accumulare tutto il possibile accumulabile, poi balzai via dalla nave che affondava e mi dileguai.
Ora, mentre voi vi scannate sul fatto che sia meglio iniziare una politica di riduzione della gradazione alcolica della birra, oppure creare dei centri di supporto psicologico per gli astemi e gli alcolizzati, oppure investire sull’agricoltura e infrastrutture per fare calare il prezzo del malto, oppure diminuire il numero di piccoli pub per produrre e vendere birra in immense strutture birro-commerciali, io scrivo la mia storia da un’isoletta nell’arcipelago delle Fiji: ho 25 gradi costanti tutto l’anno, una villa in riva all’oceano, immerso nel lusso e nelle comodità.
Sono stato tentato di aprire una piccola attività, importare qualcosa di fresco da bere all’ombra delle palme, ma a pensarci bene… forse è meglio lasciare stare. Dopotutto il succo di mango locale è fantastico, e la birra d’importazione può anche andare a farsi fottere.